Ricordando Nicola Savarese

 

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Un mese fa, il 19 giugno 2024, è morto Nicola Savarese.

La Casa Usher, in particolare la mia famiglia e io, abbiamo perso un amico. A tutti quanti è mancato uno studioso innovativo, intelligente e generoso che ha dato un grande contributo all’edificazione di una nuova cultura del teatro. Ha fatto gruppo, con solidarietà umana e legami scientifici profondi, con gli studiosi di una generazione che ha rivoluzionato la cultura teatrale. È facile pensare a Fabrizio Cruciani, Claudio Meldolesi, Nando Taviani che hanno allargato in maniera decisiva gli orizzonti degli studi: la cultura teatrale non più branca ancillare della storia e della critica letteraria, ma ricerca sugli spazi scenici, sul fondamentale ruolo attivo del pubblico, sulle identità degli attori, sulla loro quotidianità, sulle sperimentazioni e, nel caso di Nicola, sull’incontro fecondo tra teatri orientali e occidentali. Nel catalogo storico de La Casa Usher Anatomia del teatro rappresenta uno dei più importanti contributi alla costruzione di questa nuova cultura del teatro. È con profondo rammarico che negli ultimi anni, correndo, sempre correndo, non si siano trovate le condizioni di riaccendere il rapporto umano e intellettuale con Nicola. Ma ho la consolazione di avere seguito e ammirato i suoi studi più recenti. Restano ricordi bellissimi, anche legati alla sua generosa ospitalità nel Salento, all’epoca in cui insegnava a Lecce. Ho chiesto a Stefano Geraci di concederci un testo in memoria di Nicola e come sempre Stefano ha dato la sua disponibilità. Con la sua autorizzazione, mettiamo questo scritto a disposizione degli amici de La Casa Usher e soprattutto delle nuove generazioni che potranno trovare, oltre al ritratto offerto da uno studioso di una generazione più giovane di quella di Nicola, anche un’utile guida bibliografica. A te, Nicola, posso solo dire che resti nei nostri cuori e che anche in tuo nome cercheremo di continuare a darci da fare per dare voce agli obiettivi che ci hanno visto vicini.
Vittorio Giudici

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EPPURE È UN LIBRO

di Stefano Geraci

Sei anni fa, in occasione dell’uscita del volume I Cinque Continenti del teatro. Fatti e leggende della cultura materiale dell’attore di Eugenio Barba e Nicola Savarese, la rivista «Teatro e Storia» dedicò un dossier ad una impresa editoriale che aveva avuto una gestazione quasi ventennale. Sul mio contributo, che qui ripubblico con lievi modifiche su invito affettuoso di Vittorio Giudici, Nicola mi scrisse parole commuoventi. L’amico, il compagno di tante avventure e uno dei maestri del mio apprendistato, era lieto che si raccontassero le vicende che avevano dato vita al capostipite di quell’ultima fatica: Anatomia del teatro. Un dizionario di antropologia teatrale curato da Savarese per la Casa Usher nel 1983. Come è noto, quel volume ebbe una fortuna straordinaria. Rieditato più volte e tradotto in molte lingue negli anni successivi con il titolo L’arte segreta dell’attore. Dizionario di antropologia teatrale, è stata una delle più feconde “invenzioni teatrali” di quegli anni così fervidi di dialoghi tra «uomini di scena e uomini di libro» (Ferdinando Taviani). Senza la irruenta testardaggine, l’audacia dell’esploratore, il sagace sguardo rivolto ai dettagli rivelatori delle immagini, Anatomia del teatro non avrebbe mai visto la luce, e con lui la stirpe che ne è seguita.
Savarese è morto il 19 giugno 2024. Per noi, gli amici di una vita, inizia un nuovo dialogo con Nicola che ci accompagnerà per quel che resta del nostro cammino.

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Attraversando I Cinque Continenti del Teatro non sono riuscito ad evitare di domandarmi ogni volta quale genere di libro avessi per le mani.

Voglio dire che il bello, l’utile e anche il dilettevole si mescolano con l’“impertinenza” di presentarsi proprio come libro, quando, invece, si dichiara, in conclusione, una raccolta «di pagine non finite», oltre le quali gli autori in maschera, Bouvard e Pecuchet, fanno scivolare lentamente, con una mossa esibita beffardamente sotto gli occhi dei lettori, i fogli fuoriusciti dai loro taccuini. Non saprei definire quest’ultimo capitolo se non come l’ultima mano dove si gioca il destino della partita che gli autori hanno condotto fin lì, una “calata” di immagini di apocalissi atomiche e inutili stragi, di apoteosi filateliche di teatri e drammaturghi, di danze macabre e supplizi.

Un finale di partita annunciato dall’esergo a questo ultimo capitolo dove gli autori dichiarano che nei cinque precedenti hanno tentato di esporre «una sintesi tra Storia e destino individuale su come la Storia lascia un segno sulla tecnica degli attori oltre che sulle loro vite».

Se non si conoscessero gli autori, verrebbe voglia di pensare a due attori che, incoraggiati dalla lontana e straordinaria impresa di Anatomia del teatro. Un dizionario di antropologia teatrale, si trovassero nella condizione di cercarne un seguito.

Due attori rifugiati? Impediti a recitare, reclusi? Espulsi ingiustamente da qualche teatro o compagnia? O disgustati da ciò che hanno intorno: il libro dove «je me débarrasserai enfin de ce qui m’étouffe»?[1]Si capirebbe allora, fino in fondo, il ricorso ai due prestanome di Flaubert, Bouvard e Pecuchet.

Gli stratagemmi sagaci, infatti, con cui il libro «pretende» di essere tale – i dialoghi della coppia flaubertiana premessi ad ogni capitolo e, ancora più, le cinque domande (Who? What ? When Where? Why?) che «ordinano» la materia – fatti e leggende della cultura materiale dell’attore - hanno il piglio, dichiarato  in prefazione, dell’ «editor – regista» che a un certo punto sa di dover mettere fine alla turbolenza dei materiali. Se nel processo del lavoro teatrale viene il momento in cui a comandare è lo spettacolo, in questo è il «libro» da fare. Che il libro sia, dunque, senza tuttavia rinunciare, in quell’ultimo capitolo – Pagine cadute dal taccuino di Bouvard e Pécuchet, a rendere esplicito ciò che pure interroga il lettore nei cinque precedenti: che «genere» di libro sto leggendo?

Mi sono chiesto allora se per individuarlo non fosse stato opportuno cercare quali libri gli si potrebbero accostare, cosa, insomma, mettergli accanto.

Così sono andato a rileggere il saggio che Savarese ha scritto qualche anno fa, L’Avventura di un dizionario[2], convinto che ripercorrere i legami tra le due imprese mi avrebbero aiutato a trovare se non stretti compagni, dei parenti affini a I Cinque Continenti.

Il succo di quel saggio potrebbe essere riassunto così.

Un giovane storico, educato allo studio dei contesti, non riesce ad estirpare l’indomabile passione del collezionista, «un coatto delle immagini più varie» che da adulto si specializza in quelle che hanno per «soggetto» il teatro.

Con in mano la vocazione indomabile del collezionista, non è mi stato difficile riandare al ritratto che ne traccia Benjamin: «Colpito dalla frammentarietà e della dispersione in cui versano le cose del mondo», il collezionista intraprende una lotta senza fine di fronte «all’appassionato turbamento di questo spettacolo»[3].

Per sopire quel turbamento, Savarese, digiuno ancora di Warburg, abbozza schemi di figure che gli paiono del tutto insufficienti. Per fortuna, si direbbe. Se si fosse lasciato persuadere a cercare la storia delle migrazioni e delle metamorfosi delle immagini non sarebbe stato tanto efficace lo «shock» provocato dalla scoperta di quella «scuola dello sguardo», come Savarese definisce l’ISTA (International School of Theatre Antropology), soprattutto quella delle prime edizioni.

A questo punto del racconto mi sembrava di aver ottenuto una traccia per andare avanti. L’ISTA come un imprevedibile equivalente di Mnemosyne. E poi non era forse capitato più volte, nelle avventure della storia dell’arte, che raccolte e collezioni avessero incontrato «una scuola dello sguardo» generando nuove percezioni? Perché non c’è dubbio che nella prima impresa, Anatomia del teatro, le relazioni tra immagini – Savarese preferisce chiamarle «figure»[4] - e testi scritti sono uno snodo cruciale del libro.

Accertato, dunque, che all’inizio della prima impresa c’è l’incontro di un collezionista, «appassionatamente turbato dallo spettacolo» delle «figure» che raccoglie e una inedita «scuola dello sguardo», potevo fare un passo avanti.

Parafrasando Michael Baxandall, potremo dire che alle «figure» «non si danno spiegazioni: si spiegano le osservazioni fatte su di esse»[5]. Nel  nostro caso, attraverso «la scuola dello sguardo», l’osservazione di «una anatomia del vivente in stato di rappresentazione» avrebbe potuto spiegare la relazione tra l’immagine di un attore giapponese con quella di una scultura quattrocentesca. Insomma, le storie di immagini distanti non venivano scoperte attraverso dirette comparazioni, né interrogando le convenzioni artistiche o simboliche dello sguardo di chi le «figure» le produce.

L’Anatomia dell’attore si proponeva dunque di attrarre l’uno verso l’altro due sguardi separati. Quello distante dello storico, che confronta immagini di epoche diverse, e quello «contemporaneo» del partecipante della «scuola dello sguardo» per cui è impossibile una simile operazione. Il lettore sarebbe stato spinto ad intraprendere un viaggio attraverso la storia e nello stesso tempo a riconoscersi come partecipante- osservatore di quella storia nello stesso momento in cui il viaggio avviene.

Di qui il cruccio che Savarese racconta nelle sue Avventure: quale forma dare ad un libro le cui singole «voci» («mani», piedi», «energia» ecc.) non possono che essere collegate «circolarmente»? Non è possibile – aveva concluso- «fare un libro rotondo».

Che Savarese vi volesse alludere o meno, se un libro rotondo era impossibile, tuttavia «un libro sferico» era stato a lungo inseguito. Mi riferisco naturalmente a Ejzenstejn quando immaginava che tutti i suoi saggi potessero rinviare ad un centro comune così che il destinatario fosse in grado di attraversali simultaneamente, passando dall’uno all’altro, avanti e indietro.

Tralascio di accennare ai fatti e alle circostanze della vicenda del «libro sferico», per osservare solo che la «visione», nata nel 1929, tornerà a visitarlo ogni volta che avrà l’intenzione di comporre i suoi scritti in libri, tutti incompiuti: prima nel 1932 e poi ancora un anno prima della morte.

Il «libro sferico» non è una utopia, è semplicemente impossibile. Serve per non pensare il libro da farsi all’interno di un possibile «genere» di appartenenza e scontrarsi con i limiti materiali della forma-libro. Insomma, il libro, in questo caso, è un necessario compromesso a cui è doveroso non credere per realizzarlo.

Ora, dunque, possiamo venire al «compromesso» di Anatomia del teatro. Un dizionario di antropologia teatrale, la prima denominazione della fortunata serie e anche l’unica che ne conserva nel titolo il segno.

Racconta Savarese che incalzato dalla necessitàà di trovare un ordine alle «voci» («mani», «piedi», «energia» ecc. ) abbia individuato la formula più efficace nel ritrovarsi per la mani il Dizionario filosofico di Voltaire, ovvero un dizionario ricavato  dall’Enciclopédie. È quello che accade nella prima impresa di Barba -Savarese. Disposte consecutivamente le parti de l’Anatomia del teatro tendono inevitabilmente a disporsi come «voci», appunto, di un’enciclopedia, ma dovendo in ognuna di essa far risonare gli echi di tutte, ne sarebbe venuta fuori un’enciclopedia fatta di una sola «Voce». Il ricorso al dizionario invece poteva offrire un ordine di sostegno, quello alfabetico, che consentisse al lettore di non credere che la successione e lo spazio dedicato alle singole «voci» implichi una gerarchia (le parti più importanti) o un ordine propedeutico.

Qualcosa del genere, mi potevo domandare, era già successo?

Altroché, seppure a parti invertite.

Come è noto, esistono due Enciclopedie dello Spettacolo. La prima comprende i primi quattro volumi, la seconda gli altri otto.

Ripercorro molto succintamente la vicenda.

Pensata da Silvio D’Amico per trovare un personale salvacondotto in un dopoguerra dove correva il rischio concreto di essere «epurato», un tale impresa era sì stata promossa in nome della sua unicità, ma prese piede perché l’editore che l’aveva accettata (Sansoni, che poi voleva dire «prima» Giovanni Gentile e ora Ugo Spirito) era ben disposto a dare un seguito alle fortunate enciclopedie che aveva fino allora messo in piedi.

Affidata, dopo la prima e poco convincente prova, dal padre ai figli, Sandro d’Amico, caporedattore, spalleggiato da fratello Fedele, il musicologo, il progetto si era inoltrato in una strada sempre meno prevedibile.

Come raccontava Sandro al padre[6], perché l’enciclopedia uscisse dalle secche del primo deludente tentativo, era necessario smettere di dipendere dalla sua biblioteca. Ora, un’enciclopedia, idealmente o concretamente, ha sempre una biblioteca alle spalle, anche se non vuole solo ricavare da essa la ricomposizione dei libri che  ne fanno parte ma aspira al progetto monumentale di essere essa stessa un nuovo «libro».

Nel tagliare gli ormeggi dalla biblioteca di Silvio D’Amico ha origine la «crisi» del 1957, quando di fronte all’impossibilità di adempiere alle uscite richieste dall’editore (due volumi l’anno), la redazione di spacca. Da una parte i due fratelli d’Amico e i loro collaboratori, dall’altra Francesco Savio che guida la parte relativa al cinema. La sua proposta è molto semplice: continuare il lavoro intrapreso mentendo all’editore circa il rispetto del piano editoriale. Sembra solo una tattica disinvolta verso una controparte speculativa, come era d’altronde il progetto dell’Enciclopedia, in realtà, come capiscono al volo i due fratelli, quell’espediente era «un tradimento» perché rischiava di colpire al cuore il teatro.

Mentire all’editore significava dover poi mentire anche ai collaboratori. Inevitabilmente si sarebbe dovuto procedere ad una diversa ridistribuzione delle voci mandando avanti quelle più «importanti» per tamponare i rinvii, a discapito delle «minori».

Ora i meriti dell’Enciclopedia dello Spettacolo sono molti noti, dalla fuoriuscita dell’etnocentrismo, alla raccolta iconografica che col tempo tendeva a configurarsi non più come apparato illustrativo, ma «voce» tra le «voci», ma l’allontanamento dalla biblioteca paterna è decisivo. Sandro d’Amico aveva scoperto che quella enciclopedia stava prendendo vita attorno ad un paradosso: lo spazio assegnato ad ogni singola voce sarebbe dipeso dalla quantità di documenti che ogni singolo collaboratore sarebbe riuscito a rintracciare. Raccontava d’Amico: «La voce Esperia Sperani (una maestra d’attrici, un esempio non proprio scelto a caso) era più necessaria di quella dedicata a Ruggero Ruggeri»[7]. Avallare le gerarchie delle voci, avrebbe consentito ai collaboratori ad essere «lacunosi» e dare poi il diritto alle amputazioni, come poi inevitabilmente avvenne. Formalmente ed editorialmente l’impresa rimaneva una enciclopedia, di fatto cominciava a funzionare come la creazione di un nuovo «dizionario». Analogamente, per esempio, a quanto avviene per la lessicografia se una ricorrenza di citazioni di una parola comune e in uso è meno ampia di un’altra caduta in disuso, la seconda occuperà più spazio della prima.

Accanto all’analogia va sottolineata una fondamentale differenza. Se nella creazione di un dizionario linguistico la lessicografia traccia una possibile storia della lingua, i «lemmi» della Enciclopedia dello Spettacolo finivano per contraddire le storie del teatro vigenti e individuare la presenza del teatro nella storia con la sola sua dimensione pubblica, gli spettacoli.

Non è difficile immaginare cosa sarebbe successo se di fronte alla «crisi», il «dizionario» avesse prevalso: sarebbe probabilmente caduta la rilevanza della denominazione «spettacolo», alcune voci abolite, come «Città», non avevano, senso per il Cinema; l’inesausta ricerca iconografica, poi decimata, avrebbe costretto all’invenzione di nuovi voci; e, soprattutto, la formazione di inedite competenze e conoscenze, che intanto si andavano  formando, avrebbe reso evidente che quell’opera andava disponendosi come inedito «libro» che indicava strade più ampie e ricche da quelle intraprese dalle scene che prendevano forma in quegli anni in Italia.

Giunto sin qui, la vicenda della «prima» Enciclopedia troncata mentre si andava facendo, mi sono chiesto se non valesse la pena abbandonare la ricerca di libri affini e non, invece, appellarmi a  qualche altro progetto famoso che non è mai andato in porto. Poteva ora valere la pena fare una visitina a «quel grand livre» di cui Jacques Copeau era andato in cerca quarant’anni prima durante l’interruzione delle attività del Vieux Colombier provocata dalla grande guerra.

Copeau, alle prese con la versione francese di On the Art of the Theatre, si era detto che se Gordon Craig era stato costretto a far nascere solo «le livre» del teatro a venire, il Vieux Colombier avrebbe potuto far marciare insieme la scena e il « libro» verso la conquista del teatro rinato.

L’impresa di quel «grand périodique » che avrebbero dovuto comporre progressivamente «le livre des bon artisan, où viendra se consigner toute découverte»[8] alla fine ricadde negli anni successivi quasi tutta sulle spalle di Lèon Chancerel che si rammaricherà del tempo impiegato per la ricerca dell’imponente documentazione necessaria per dar vita al « livre» a discapito della sua azione nelle scene.

Diversi sono i motivi per i quali il progetto andò a vuoto.

Vorrei qui solo sottolineare come Copeau non riuscì a provocare l’entusiasmo in chi maggiormente se lo aspettava, Louis Jouvet.

Bastava correggere la famelica ricerca di libri, tavole illustrate, documenti d’archivio con cui l’attore avrebbe voluto ricostruire «le carte di famiglia», conoscere non solo da vicino i «suoi antenati», ma addirittura avere la sensazione di ripercorrerne la carriera e da qui spiccare il grande salto verso il nuovo comédien.

Copeau lo voleva proteggere dal cadere nell’equivoco di credere che la rinascita avesse a che fare col riannodare i fili di una tradizione ormai interrotta. Non aveva torto, ma non si capivano fino in fondo, come capitava talvolta a lui e Dullin durante le prove.

Jouvet avrebbe voluto che l’attore avesse lo stesso diritto ad una memoria lunga come quella di uno scrittore, la libertà di poggiare i piedi, quando fosse necessario, in passati lontani, un continuo andirivieni tra quei mondi e le contingenze della professione. Anche da Montaigne, diceva a Copeau, se ne potrebbe trarre un «dictionnaire», lì c’era tutto, o quasi.

E poco importava se fatti e leggende anziché contrapporsi andavano ad intrecciarsi gli uni con le altre. Quello che proprio aborriva era confezionare un libro dell’attore, memorie, manuali, libri-conversazione.

Quel suo «grand livre» non smise mai di cercarlo, di tentarne approssimazioni. Acutissima ne avvertì l’urgenza e anche la responsabilità quando trovò un accorto salvacondotto per sé e la sua compagnia girando il mondo mentre i nazisti occupavano la Francia. Il libro non fu poi mai realizzato, ma gli era chiaro in quegli anni che dovesse esplorare gli atti di coscienza nello spazio tra la persona che poteva essere e l’attore curvato dall’esercizio della professione durante la sfiancante peregrinazione affrontata per salvare il suo teatro. Intorno a questa storia invisibile si aggirò fino alla fine della sua vita, pubblicando lacerti e affioramenti.

Forse sarebbe stati sufficienti questi ultimi passi per cominciare a spendere le righe dovute a I Cinque Continenti, ma la camminata non ho potuto evitarla.

Mi è servita per mettere in fila fallimenti, crisi, enciclopedie che diventano dizionari, libri impossibili, una affinità non di «genere», ma lontani parenti «degeneri» attraverso cui inseguire I Cinque Continenti  del Teatro.

Quindi ora me la posso spicciare con poche parole.

Mi sembra chiaro intanto quello che il libro non è.

Non una storia del teatro, perché affrontata nell’atto di sfidarla, non un album ragionato di «tecniche ausiliari» perché la selezione e il montaggio delle immagini che ne individuano la pertinenza è alla fine letteralmente rinfacciata dall’impertinenza che le rivolge la Storia attraverso le immagini dei suoi detriti e delle sue distruzioni.

Alla fine si potrebbe concludere che il libro stesso “soffra” nel tentativo di mostrare come le «tecniche ausiliare», l’impasto di vita e mestiere nelle storie degli attori, attraversino la Storia.

Le scosse, i piccoli precipizi, le rapide incisioni sulla pelle della materia che organizza danno vita ad una lotta entro e contro la forma-libro.

Un solo esempio.

La raccolta di testi e immagini e testi intitolata Piccola Enciclopedia dell’onore degli attori, dedicato ad un artigianato che impone di «non condividere i valori imposti dalle circostanze e dallo spirito del tempo», è presentata attraverso quella che Barba chiama «una immagine -esca», una «storia sotterranea del teatro» di fronte alla quale i racconti degli storici rivelano limiti invalicabili, contraddizioni e sono costretti ad arrestarsi. Questa storia che non si può scrivere riguarda tutto quello che trova rifugio nelle tecniche e nelle regole degli attori, ribellioni, ferite personali, ambizioni incalzanti e soprattutto «il cosiddetto caso», quel «vento cieco chiamato Storia» che scompiglia destini e produce incontri, sospinge lontano e crea incontri inaspettati. È per questo che la Piccola Enciclopedia si affaccia improvvisa sull’ultimo paragrafo intitolato La responsabilità del teatro entro il quale si raccoglie una rassegna degli zoo umani, delle esposizioni di mostri e del commercio del loro spettacoli?

Questa «storia sotterranea» non si può raccontare, però la si può mostrare attraverso ciò che scuote la forma-libro, accumulando «pagine non finite» e fogli che potrebbero volare via all’infinito dai taccuini dei loro autori, e ricomporsi con un altro ordine secondo «il cosiddetto caso» o con gli infiniti meridiani del «libro sferico» che convergono verso lo stesso centro.

Eppure è ancora un libro, artigianalmente tanto ben composto quanto più si avvicina e sfiora il suo fallimento, mostrandosi esso stesso, nell’ostinazione ammirevole del suo farsi, una «tecnica ausiliare» del teatro.


[1] Lettera a Madame Roger des Genettes, 5 ottobre 1872. Gustave Flaubert, Correspondance, édition établie, présentée et annotée par Jean Bruneau, t. IV, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1998.

[2] N. Savarese, Avventure di un dizionario. Note dedicate a Nando Taviani con l’aiuto di Angelo Greco, «Teatro e Storia», n.35, 2014, pp.393-409.

[3] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Torino, Einaudi, 2000, p. 222.

[4] «Uso il termine “figura” perché ho sempre scartato la parola “illustrazione” che sebbene nata da nobili intenti – dare lustro e splendore ad un libro – ripiega al rango di corredo laterale, quasi riempitivo, di fronte alla forza del testo scritto pur sempre protagonista di un’opera di studio. (N. Savarese, Avventure di un dizionario, cit. nota2).

[5] M. Baxandall, Forme dell’intenzione, Torino, Einaudi, 2000, p. 10.

[6] Lettera del 2 dicembre 1954, Fondo Silvio D’Amico contenuto nell’Archivio privato della famiglia Cecchi- D’Amico.

[7] Cito dalla trascrizione dell’intervista a Sandro d’Amico della  rivista «Quindi», novembre 1991), Fondo Silvio D’Amico, vedi nota precedente.

[8] J. Copeau a Louis Jouvet, lettera del 25 agosto 1915, J. Copeau- L. Jouvet, Correspondance, Paris, Gallimard, 2013.

 

 

 

 

 

 

 

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