Un libro unico nel suo genere, che non esito a definire indispensabile per tutti coloro che, in Italia, non si rassegnano a vedere la classe operaia continuamente calpestata e spogliata dei suoi diritti. A partire da uno fondamentale: il diritto… all’esistenza, nel senso del riconoscimento del fatto che esiste. Politici e sociologi si affannano da un pezzo a dire che la classe operaia propriamente detta non c’è più, che è stata assorbita dai ceti medi, che la sua materialità si è stemperata nella centralità del lavoro intellettuale. Salvo scoprire lotte vivaci che hanno a protagonisti facchini, braccianti, portuali, trasportatori e addetti alle pulizie. Oltre a operai di fabbrica “sopravvissuti” al dilagare del cosiddetto lavoro cognitivo.
Harry Bravermann aveva messo in guardia, nel suo classico – ma ahimè dimenticato – Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo (Einaudi, 1978). La classe operaia può essere scomposta, rimodellata, dispersa, trasformata; ma resta sempre lì, unica capace di conferire alle merci il loro valore. Si tratta di scoprirne i nuovi volti, sotto una miriade di maschere cangianti. E, restituendole identità, di indurla a combattere, per la liberazione di tutti, i due meccanismi principali con cui il capitale la rende serva. Una degradazione progressiva del lavoro, che finisce con l’essere anche psichica: chi è maggioranza non deve accorgersi della nozione di forza insita in questo dato. E una gerarchizzazione spinta a livelli assurdi, in cui chi sta alla base di un grattacielo in crescita si convinca di non poter toccare chi abita ai piani sempre più alti.
L’antidoto alla resa senza reazione è contarsi, e analizzare in dettaglio la propria identità. E’ ciò che fanno i Clash City Workers, un collettivo di giovani proletari nato a Napoli, ma oggi presente in varie città italiane. Convinto, a ragione, che la ricerca sulla composizione sociale sia preludio necessario al sorgere della coscienza, dunque alla ricomposizione, dunque alla lotta. Di cui, dopo uno studio defatigante, hanno fornito il primo manuale esaustivo, che dovrebbe essere nella tasca della giacca di ogni militante antagonista.
Il metodo? Un uso delle inchieste degli organi preposti, a partire dall’Istat, completamente diverso da quello istituzionale. Ecco i vari settori industriali scomposti e dettagliati, ecco i 23 milioni di lavoratori italiani sezionati per ambito, specializzazione, caratteristiche. Mentre nega ufficialmente l’esistenza di un proletariato, il potere (cioè il capitale, ma io aggiungerei lo Stato, ormai non solo nazionale, che è la sua sintesi operativa) non cessa di monitorarlo a fini di dominio. Stravolte le finalità, deviate in chiave di ricomposizione e di lotta, quelle statistiche diventano preziose.
Una critica al lavoro dei Clash City Workers è giunta, su Senza Soste, dal brillante docente universitario che si firma Nique La Police. In un lungo articolo, che conferma intelligenza e cultura dell’autore, dice che l’affidarsi alle statistiche Istat contrasta con la “conricerca” teorizzata dai “Quaderni Rossi” e da tutta la scuola operaista. I CCW si appiattirebbero inoltre su definizioni di Marx e Lenin, presumibilmente superate. Non comprensive di esperienze di dominio capitalistico come Amazon, Google e altri sottili metodi di comando, in cui anche il lavoro materiale è subordinato in maniera inedita a un cuore “immateriale” estremamente complesso.
D’accordo, ma personalmente sono stanco di analisi delle classi che prescindevano dai numeri, e partorivano definizioni astratte, non collegate all’economia bensì a discipline politologiche. Abbiamo avuto l’operaio massa, e andava bene. Era quantificabile e identificabile sul piano concreto. Abbiamo avuto l’operaio sociale, e andava meno bene. Troppo generico, e capace di comprendere tutto e il contrario di tutto. Però a una qualche realtà aderiva, e la mobilitava. Infine sono arrivate le moltitudini, e l’astrazione è diventata totale. Non corrispondeva più a pratiche di lotta. Cosa vado a dire all’operaio di Pomigliano e dell’Electrolux? Che è moltitudine? E poi?
I Clash City Workers (dimenticavo: il nome deriva da un brano dei Clash, Clash City Rockers) ci riportano al concreto. Fatto di precariato, disoccupazione, lavoro e sudore. E ci suggeriscono, per qualsiasi segmento di una classe operaia multiforme, ma sempre Classe Operaia, possibili modi di approccio, di coinvolgimento, di spinta a riconoscersi e a lottare.
Qui mi fermo per non sprecare elogi. Un libro così lo aspettavo da un ventennio almeno. E chi non lo compra, peste lo colga.